Una vita come tante

【”Ora però, a quarant’anni quasi compiuti, vedeva le relazioni sentimentali come specchi dei desideri più profondi e inespressi delle persone, come se tutte le loro speranze e tutte le loro insicurezze assumesse la forma fisica di chi avevano accanto. Guardava le coppie e si domandava: Perché state insieme? Qual è la cosa che vi manca è che cercate di trovare nell’altro?”】

“Una vita come tante” di Hanya Yanagihara è un romanzo disturbante, non soltanto per la brutalità con cui sono narrate numerose scene di abuso, ma anche perché – una volta giunti al termine dopo oltre mille pagine ‐ resta da fare i conti contro una durissima realtà: non tutti possono essere salvati. Non sempre l’arte giapponese del kintsugi si rivela efficace: per quanto avvolte dall’oro, infatti, certe crepe potrebbero ancora mantenere la forza di spezzare la brocca.
In quest’opera la brocca si chiama Jude St.Francis, un giovane dalle origini sconosciute: Jude l’oscuro (come il titolo di uno dei più cupi romanzi di Thomas Hardy; Jude come Giuda). Le violenze che il personaggio subisce fin dalla più tenera infanzia gli impediscono di sviluppare un’autentica personalità; non a caso egli si identifica con l’assioma dell’uguaglianza X=X, X non muta mai, è sempre uguale a se stessa. Ma X è il nulla e nulla è l’identità di Jude. Un vuoto che tutti gli altri personaggi, nel corso della vicenda, di sforzano di riempire con i propri bisogni profondi e più o meno leciti: Harold desidera un figlio, Willem un affetto stabile, JB una musa ispiratrice, Caleb un capro espiatorio… E Jude li accontenta tutti o è costretto a farlo. Accontentare gli altri sembra il suo unico destino. Sembra nato per questo ‐ gli dicono. Tutti sembrano conoscere quale sia il suo ruolo nel mondo; tutti sembrano conoscere la sua vera identità e cercano di convincerlo (in buona o in cattiva fede) ad adattarsi ad essa.


Jude vorrebbe ribellarsi a ogni forma di manipolazione, ma il timore dell’abbandono gli rende difficile dire di no. La rabbia è sempre socialmente inaccettabile. In bilico tra l’impulso di uccidere o uccidersi ‐ comportamenti che lo condurrebbero inevitabilmente verso la prigione o l’ospedale psichiatrico ‐ Jude cerca dunque un compromesso: non permetterà alla violenza di manifestarsi alla luce del sole. Ma nell’ombra… Le maniche lunghe nascondono i tagli che ogni notte si infligge; la ricchezza nasconde e rende rispettabile l’ambiguità della sua professione. Jude ha scelto, infatti, di difendere multinazionali corrotte, è l’avvocato del Diavolo e proprio come il diavolo ha l’andatura zoppicante.
Gli amici del resto gli regalano proprio la statua di San Jude per il compleanno, un regalo insolito visto che Giuda non era esattamente un santo…

A mio avviso non so se sia più disturbante l’oscurità di Jude o il fascino che egli esercita su tutti gli altri personaggi, condizionandone la vita privata e la carriera. Senza di lui il romanzo non esisterebbe. Nel corso della vicenda le personalità di JB, Willem, Andy, Harold, Malcolm, Caleb… sembrano sbiadire finché non resta solo il vuoto. Jude ha risucchiato tutti dentro di sé.
L’ossessione di salvare o, nel caso di Caleb, distruggere Jude è talmente totalizzante da frantumare l’io di chi la prova. Nessuno può esistere senza Jude. Ma non esiste neppure Jude. Questo soprattutto mi ha spiazzata: il rischio di esaurire la vita inseguendo un’illusione.

Fenissa Holden