Impressioni su “Infinite Jest” -quarta tappa-

Il gruppo di lettura di “Infinite Jest” di D.F. Wallace continua… Ecco la mia recensione delle pagine 380-502.

La quarta tappa di “Infinite Jest” si apre quasi subito con una lunga e accurata descrizione di Eschaton, un gioco teoretico molto in voga tra gli atleti dell’ETA. Il rigore matematico con cui tutto è pianificato, tuttavia, non impedisce la crisi e il trionfo finale del Chaos: basta un’infrazione alla regola, la Regola per eccellenza, e tutto il sistema degenera in modo rapido.

La descrizione del crollo è intervallata da continui riferimenti alla neve. All’inizio si dice: “È solo neve del mondo reale, non cade sullo scenario del gioco”. Sembra lontana. Al primo apparire della violenza, invece, i fiochi turbinano sempre più veloci e epifanici, ignorando qualsiasi confine finché il freddo non trionfa e persino il rumore di vetri rotti e sirene è attutito dal “non-suono della neve che cade”. La neve copre ogni cosa, reale o virtuale che sia.

Questa conclusione dell’episodio mi ha ricordato il finale di uno dei più celebri racconti di “Dubliners” di Joyce: “The dead”. Là la neve annullava le differenze tra vivi e morti, cadendo su entrambi, e rendeva evidente una malinconica verità: i vivi si avviano lentamente verso la morte, mentre il ricordo dei morti può ancora influenzare la vita. La morte, anche quando è lontana, ha una forza che a volte la vita non ha. Spaventa e attrae.

La conclusione della partita a Eschaton, tuttavia, secondo me, nel momento in cui la parola “rumore” si contrappone a “non suono” (pag. 410, ultime righe dell’Edizione Einaudi), allude anche a un’altra opera significativa per la letteratura americana: “Rumore bianco” di Don DeLillo. Anche in quel romanzo si parla di morte, nello specifico di una società che cerca di esorcizzare il timore della morte, il suo rumore bianco, con il frastuono dei media. Il bianco è il colore del lutto in numerose culture.

A mio avviso D.F. Wallace è riuscito a unire con grande eleganza le suggestioni di entrambe le opere: Eschaton è un cosmo ordinato, che si illude di resistere alla distruzione, al timore della morte; essa, invece, si insinua irrazionale e bianca come la neve, sia sulla mappa (luogo reale), sia sul territorio (luogo virtuale), sia sui vivi che sui morti. E poi deflaga.

Più avanti, quando i ragazzi dell’ETA si confidano con Lyle, invece non nevica: il cielo è in tempesta e tutta quell’acqua che irrompe simboleggia l’emotività. Il guru la riassorbe e il lampo lo illumina con la sua luce. La luce, simbolo del divino, qui potrebbe alludere alla spiritualità, una dote che nel romanzo caratterizza soprattutto i personaggi capaci di ascoltare (Lyle e Mario), in contrapposizione alla reificazione dilagante che impedisce di vedere l’Altro come persona.

A proposito di anime, la descrizione degli stati d’animo degli Alcolisti anonimi (Aa) di Boston e dei pazienti dell’Ennet House è lancinante. La metafora della “peritonite dell’anima” per definire il dolore psichico, rende la sofferenza tangibile. L’uomo è messo a nudo di fronte al bisogno della sostanza, una sostanza che se si toglie la maschera inautentica non solo evoca IT (lunghi canini, faccia bianca, sogghigno da incubo), ma finisce per assumere le sembianze di chi guarda. La sostanza è qualcosa di più di droga e alcol: è metafora della stessa vita che divora fino a trasformare l’uomo in scheletro. Anni di lusinghe e finti piaceri finché non si scopre che il teschio di Amleto è sempre stato lì, nello specchio, a mostrare nel vuoto degli occhi la verità.

I rituali degli Aa proteggono dalla disperazione prodotta da questa nudità; sono una forza che spinge indietro la volontà (la “voluntas” di Schopenhauer) prima che si arrivi troppo vicini al baratro, prima che si sollevi definitivamente il velo di Maya. Le cose sembrano più vere quando si è al riparo dal mondo esterno. Ma è davvero così?

Cos’è “sostanza”? Cos’è apparenza?

Sembra che Wallace voglia sfidarci a rispondere, senza mai dare il sollievo di una soluzione definitiva. Moltiplica le voci all’infinito e ogni suo personaggio si fa portatore di una personalissima e (in)discutibile verità.

E come nell’ “Amleto” di Shakespeare, dove il principe di Danimarca si serve di attori per raccontare una vera fabula che accade, è accaduta, accadrà, così nel romanzo di Wallace il racconto della più tragica problematica ambientale che affligge gli stati dell’Onan è affidato a uno spettacolo di marionette, come se tutto fosse finzione e invece è la nostra realtà.

Fenissa Holden

Fotografia modificata tramite Comica app