Meglio sole che nuvole

[“Vale sempre la pena di scrutare nell’acqua. È quasi come vivere la vita”]

La metamorfica sensualità di Ovidio e il rigore delle fotografie a bordo piscina di Mária Švarbova si fondono nella prosa acquatica di “Meglio sole che nuvole”, il nuovo romanzo di Jane Alison edito dalla casa editrice NN e ambientato in una Miami Beach dal “tempestoso cielo tropicale e le nuvole stracciate che la luna colorava di blu”.

La voce narrante è quella di J., una donna sulla quarantina ancora molto attraente, che dal suo appartamento al ventunesimo piano osserva le vite degli altri dimenarsi al di là dei vetri. Saranno felici? Enigmatici e realistici al tempo stesso, come i personaggi dei quadri di Hopper, gli inquilini appaiono e scompaiono, lasciando talvolta scivolare qualcosa di invisibile dalla ringhiera, più spesso innaffiano piante, stringono mani, contemplano il cielo.

Nelle stanze di J., invece, ci sono pareti a specchio che “ovunque [lei] si giri ne riflettono la faccia triste” e la spingono a uscire e tuffarsi nella piscina a clessidra del condominio per poi nuotare a faccia in su e lasciare che l’acqua l’avvinghi come un tempo era accaduto al giovane Narciso. “E l’acqua… al tocco del ragazzo l’acqua blu trema e sospira sommessamente”.

L’acqua, questa culla di desiderio, a differenza degli specchi non si limita a riflettere sterilmente un’immagine: mentre avvolge feconda corpo e mente. Ogni immersione, infatti, è prodigio: prima libera l’animo da ogni pesante vincolo passionale e solo poi, quando l’identità è abbastanza forte da saper nuotare da sola (e più velocemente delle ninfe  che per sfuggire ai satiri molesti si scioglievano nei fiumi), insegna ad amare. L’amore, infatti, prima ancora di essere amore per l’altro è amore profondo di sé, discesa nell’abisso dell’io.

Nei fondali J. trova un sé che, ancor più che umano, è organico e acquatico, dotato di una struttura ossea corallina misteriosa come le grotte calcaree che hanno origine dai depositi di cloro della piscina stessa. Un luogo primitivo e impervio in perenne metamorfosi, proprio come i versi di Ovidio che da mesi lei cerca di tradurre e tradire; versi che, mutando, mutano prima di tutto lei e la sua stessa percezione della realtà.

“Ovidio, sei ancora qui? […] Sento le tue frasi che nuotano dentro di me, i tuoi personaggi che percorrono le lande selvagge dei boschi, e l’aria, e le lettere, e il tempo”.

La roccia corallina, tuttavia, non solo può essere inquietante come una scultura di Damien Hirst, ma per J. è “la cosa più bella di Miami. È una roccia calcarea formata dalla barriera corallina fossilizzata che, a tagliarla, rivela in sezione i diversi coralli pietrificati. L‘acropora palmata, l’acropora cervicornis, la gorgonia, la siderastrea siderea, e il corallo cervello”. Nomi simili a incantesimi, nomi oracolo che evocano storie di un tempo che fu, quando le fanciulle offese si trasformavano in pietre, animali e stelle e non restavano “semplicemente là […] un un rotolio di ossa nel letto di un ruscello”. Un tempo in cui il dolore di Medusa, straziata da Perseo, si trasformava in corallo e poesia; un tempo in cui fanciulle come la fenicia Europa, sedotta da Giove in forma di toro, videro il proprio rapimento mutarsi in un favoloso viaggio marino al confine tra sacro e profano.

Questi miti, dai più creduti morti e sepolti nelle viscere della terra, tornano ora a infiltrarsi come l’acqua nelle fantasie di J. che, immersa nella quiete sensuale della piscina, dona loro una vita nuova e mondana. Lei sa che se Ovidio potesse rinascere, sceglierebbe Miami Beach, trasgressiva e malinconica, come sua nuova Roma imperiale in cui ambientare tutte le storie. I miti sono vivi, intorno a noi. Ancora. Basta solo saperli vedere: nelle luci pirotecniche della città, nella spiaggia che pigramente lambisce la baia e in quel cielo che ogni giorno potrebbe far precipitare su di noi il miracolo – sereno o piovoso che sia – “Meglio sole che nuvole” direbbe J. e ora più che mai, dopo la lettura di questo libro azzurro-mare, lo pensiamo anche noi.

Fenissa Holden©

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Jane Alison, Meglio sole che nuvole (2016), Edizioni NN, Milano 2018.

Medusa

[Μέδουσα, Médousa, o Μεδουση, Medousê, in greco antico vuol dire “protettrice”, “guardiana”]

Ho innaffiato il mio cuore spezzato

che d’erba e di fiori è rinato:

profumi d’assenzio e d’oblio,

qualcosa di nostro

che non è più mio.

Sotto le braci palpita terra

stretta da dita che han visto la guerra

di cervelli affilati, ansanti, in balia

di sensi scomposti, serpenti e magia.

Da crepe cruente la pietra è venata,

e la luce filtra felice e insensata.

Sorrise Medusa quando si fece corallo?

Nel riflesso degli occhi che il fiume cancella

sono dolore e amore un’unica stella.

Fenissa Holden©

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Photo: Damien Hirst, Medusa (2017). Il corallo rosso, nato secondo il mito dal sangue di Medusa, ancora oggi è detto “gorgonia” o “pietra del sangue”.