“Guarda guarda,” diss’egli, “siete vestita di nero oggi”.
“Mi piace molto il nero” confessò lei. “Se mi dessi ascolto, non porterei che abiti neri”.
“Perché? È lugubre, il nero”.
“Ma no. Al contrario, dà importanza a tutto ciò che si pensa. Si è costretti a prendersi sul serio”.
“Allora, se portaste dell’azzurro o del verde?”
“Non so. Avrei l’impressione di essere un fiume o un pioppo. Quando ero piccola, credevo che i colori possedessero un potere magico… Per questo ho voluto dipingere”.
Gli presi il braccio, con quel gesto pieno di abbandono che lo sconvolgeva di tenerezza.
“Anch’io” diss’egli, “ho tentato di dipingere. Ma disegno male”.
“E questo che importa? È il colore che conta”.
“Mi piacerebbe vedere le vostre tele”.
“Oh! Non valgono molto. Non significano niente. Sono dei sogni… Voi sognate a colori?”
“No. Vedo soltanto grigio… Come al cinema”.
“Allora, non potete capire. Siete un cieco!”
Rise e gli strinse il braccio, per mostrargli che scherzava.
“È tanto più bello di quello che chiamiamo la realtà,” riprese lei. “Immaginate, se potete, dei colori che si toccano, che si mangiano, che si bevono, che vi penetrano totalmente. Si diviene simili a quegli insetti che si confondono con la foglia che li sostiene, a quei pesci che somigliano a coralli. Ogni notte, sogno dell’altro paese”.
“Anche voi,” mormorò egli.
[…]
“Quand’ero bambino,” riprese lui, “ero ossessionato da quel paese sconosciuto. Potrei persino mostrarvi sulla carta dove comincia”.
“Non è lo stesso”.
“Oh! Sì. Il mio è pieno di tenebre, il vostro luminoso, ma so bene che si raggiungono”.
P. Boileau, T. Narcjac, La donna che visse due volte, Garzanti, Milano 1959, pp. 54-55.
Fotogramma tratto dal film Vertigo (La donna che visse due volte) di Hitchcock (1958).